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Da Le cote de Guermantes II

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Da LE COTE DE GUERMANTES II

 

 

 

[…] (Sa tête était tournée dans l’ombre, je ne pouvais pas voir si ses yeux laissaient tomber des larmes comme sa voix donnait à le croire.) Je vous disais que j’ai fait cent pas au-devant de vous, cela a eu pour effet de vous en faire faire deux cents en arrière. Maintenant c’est à moi de m’éloigner et nous ne nous connaîtrons plus. Je ne retiendrai pas votre nom, mais votre cas, afin que, les jours où je serais tenté de croire que les hommes ont du cœur, de la politesse, ou seulement l’intelligence de ne pas laisser échapper une chance sans seconde, je me rappelle que c’est les situer trop haut. Non, que vous ayez dit que vous me connaissiez quand c’était vrai — car maintenant cela va cesser de l’être — je ne puis trouver cela que naturel et je le tiens pour un hommage, c’est-à-dire pour agréable. Malheureusement, ailleurs et en d’autres circonstances, vous avez tenu des propos fort différents.

— Monsieur, je vous jure que je n’ai rien dit qui pût vous offenser.

— Et qui vous dit que j’en suis offensé ? s’écria-t-il avec fureur en se redressant violemment sur la chaise longue où il était resté jusque-là immobile, cependant que, tandis que se crispaient les blêmes serpents écumeux de sa face, sa voix devenait tour à tour aiguë et grave comme une tempête assourdissante et déchaînée. (La force avec laquelle il parlait d’habitude, et qui faisait se retourner les inconnus dehors, était centuplée, comme l’est un forte, si, au lieu d’être joué au piano, il l’est à l’orchestre, et de plus se change en un fortissime. M. de Charlus hurlait.) Pensez-vous qu’il soit à votre portée de m’offenser ? Vous ne savez donc pas à qui vous parlez? Croyez-vous que la salive envenimée de cinq cents petits bonshommes de vos amis, juchés les uns sur les autres, arriverait à baver seulement jusqu’à mes augustes orteils ? Depuis un moment, au désir de persuader M. de Charlus que je n’avais jamais dit ni entendu dire de mal de lui avait succédé une rage folle, causée par les paroles que lui dictait uniquement, selon moi, son immense orgueil. Peut-être étaient-elles du reste l’effet, pour une partie du moins, de cet orgueil. Presque tout le reste venait d’un sentiment que j’ignorais encore et auquel je ne fus donc pas coupable de ne pas faire sa part. J’aurais pu au moins, à défaut du sentiment inconnu, mêler à l’orgueil, si je m’étais souvenu des paroles de Mme de Guermantes, un peu de folie. Mais à ce moment-là l’idée de folie ne me vint même pas à l’esprit. Il n’y avait en lui, selon moi, que de l’orgueil, en moi il n’y avait que de la fureur. Celle-ci (au moment où M. de Charlus cessant de hurler pour parler de ses augustes orteils, avec une majesté qu’accompagnaient une moue, un vomissement de dégoût à l’égard de ses obscurs blasphémateurs), cette fureur ne se contint plus. D’un mouvement impulsif je voulus frapper quelque chose, et un reste de discernement me faisant respecter un homme tellement plus âgé que moi, et même, à cause de leur dignité artistique, les porcelaines allemandes placées autour de lui, je me précipitai sur le chapeau haut de forme neuf du baron, je le jetai par terre, je le piétinai, je m’acharnai à le disloquer entièrement, j’arrachai la coiffe, déchirai en deux la couronne, sans écouter les vociférations de M. de Charlus qui continuaient et, traversant la pièce pour m’en aller, j’ouvris la porte. Des deux côtés d’elle, à ma grande stupéfaction, se tenaient deux valets de pied qui s’éloignèrent lentement pour avoir l’air de s’être trouvés là seulement en passant pour leur service. […]

 

 

***

 

 

Da LA PARTE DI GUERMANTES II

Traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore

 

 

[…] (La sua testa, voltata, rimaneva in ombra; non potevo vedere se i suoi occhi versassero le lacrime che la sua voce sembrava implicare.) «Come vi dicevo, ho fatto cento passi verso di voi, con l’unico risultato di farvene fare duecento all’indietro. Adesso sta a me allontanarmi, e non ci conosceremo più. Non ricorderò il vostro nome, ma il vostro caso, affinché, quando sarò tentato di credere che gli uomini abbiano un po’ di cuore, di cortesia, o semplicemente l’intelligenza di non lasciarsi sfuggire un’occasione senza pari, mi ammonisca che, valutandoli così, li metto troppo in alto. No, che abbiate detto di conoscermi quando questo era ancora vero – perché, adesso, sta per non esserlo più – posso solo trovarlo naturale, lo considero come un omaggio, cioè come una cosa gradevole. Disgraziatamente, altrove e in altre circostanze, avete pronunciato parole ben diverse.»

«Signore, ve lo giuro, non ho detto nulla che potesse offendervi.»

«E chi vi ha detto ch’io ne sia offeso?» esclamò Charlus in un accesso di furore, rialzandosi impetuosamente dalla chaise-longue dove, fino a quel momento, era rimasto immobile, mentre i lividi serpenti schiumosi del suo volto si increspavano e la sua voce si faceva, volta a volta, acuta o grave come una tempesta assordante e scatenata. (La forza con cui parlava abitualmente, e che già, per strada, faceva voltare gli sconosciuti, era centuplicata, come un forte se, anziché al piano, viene suonato dall'orchestra, trasformandosi per di più in fortissimo. Il signor di Charlus stava urlando.) «Pensate d’essere all’altezza di potermi offendere? Non sapete, dunque, a chi vi rivolgete? Credete che la saliva infetta di cinquecento omuncoli vostri pari, appollaiati uno sull'altro, riuscirebbe anche solo a inumidire i miei augusti alluci?»

Da qualche istante, al desiderio di persuadere Charlus, che non avevo mai detto, né inteso dire, niente di male sul suo conto, era succeduta una folle rabbia, provocata da quelle parole dettategli unicamente - così pensavo - dal suo smisurato orgoglio. Di tale orgoglio, del resto, erano forse, almeno in parte, l’effetto. Quasi tutto il resto veniva da un sentimento che ancora ignoravo che non fu dunque colpevole, da parte mia, non tenere nel debito conto. In mancanza dell’ignoto sentimento avrei potuto almeno, se mi fossi ricordato delle parole di Madame de Guermantes, mescolare all’orgoglio un pizzico di follia. Ma, in quell’attimo, l’idea della follia non mi passò nemmeno per la testa. A mio avviso, in lui c’era solo orgoglio, e in me solo furore. Il quale (nel momento in cui Charlus smetteva di urlare per parlarmi dei suoi augusti alluci, con una maestosità accompagnata da una smorfia, un vomito di disgusto all’indirizzo dei suoi oscuri bestemmiatori), il quale furore non si contenne più. Un impulso irrefrenabile mi spingeva a spaccare qualcosa, e poiché un residuo di discernimento mi induceva a rispettare un uomo tanto più anziano di me e anche, considerata la loro dignità artistica, le porcellane tedesche posate intorno a lui, mi avventai sul cappello a cilindro nuovo di zecca del barone, lo buttai per terra, lo calpestai, m’accanii a sfasciarlo interamente, strappai la fodera, lacerai in due la corona senza dare ascolto alle vociferazioni ininterrotte del signor di Charlus, e, attraversata la stanza, spalancai la porta per andarmene. Su entrambi i lati di essa erano appostati, con mia grande stupefazione, due lacchè, che si scostarono lentamente come se si fossero trovati a passare di lì per qualche loro incombenza. […]


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